Obesità e stigma: 3 teorie per spiegare perché grasso=colpevole

Mai come nell’epoca odierna il dibattito sul corpo si è fatto tanto centrale e sentito.

Sui social pullulano profili “pro” e “contro” qualsiasi aspetto dell’identità e dell’espressione personale e, come in ogni epoca, quello del grasso è rimasto un tema predominante, particolarmente caldo e capace di creare schieramenti agguerriti.

E così, sotto la superficie, ma nemmeno troppo sotto, ecco comparire lo stigma sul peso: stereotipi ed etichette vengono assegnate alle persone affette da obesità, senza alcun diritto di replica o di validazione.

Le cose stanno così e basta, sembrano dire le frasi di alcuni commentatori “esperti”.

E chi dice il contrario non fa altro che promuovere (sì, promuovere; come l’offerta del 3×2 del detersivo al supermercato) l’obesità, ignorando la pericolosità delle sue affermazioni.

Una doppia vergogna, quindi: quella di essere grassi e quella di provare a difendere la propria auto-accettazione.

Ma da dove arriva una così consolidata visione delle colpe dell’individuo grasso?

Quali sono le ragioni di una presa di posizione così certa e intoccabile?

Gli psicologi hanno tentato di fornire una risposta mediante l’esposizione di tre teorie, le quali appaiono appena sufficienti a giustificare la complessità del fenomeno.

Vediamole di seguito:

  1. Teoria dell’attribuzione. Le persone, per spiegarsi in ogni momento i fenomeni che le circondano, compiono delle inferenze causali: attribuzioni che servono a spiegare determinati comportamenti. Secondo Heider (1958), in particolare, tendiamo ad attribuire il comportamento degli altri a cause interne (tratti di personalità, motivazione, ecc.) o a cause esterne (fortuna, circostanze favorevoli, ecc.). Nel caso dell’obesità, la narrazione collettiva predominante che vede nel paziente la responsabilità per la propria condizione, fa sì che le persone affette da questa patologia vengano stigmatizzate. La diffusione incontrollata di informazioni incomplete e/o errate rispetto alle cause dell’obesità ha contribuito a rinforzare la convinzione che essa sia sotto il controllo della persona che ne soffre e, perciò, colpa della stessa. Paradossalmente, ad alimentare questa inferenza errata, hanno contribuito anche le storie di “successo” di gestione dell’obesità narrate alla televisione. La selezione di casi particolari, e di momenti di vita particolari di questi stessi casi (per cui non si ha modo di notare l’evoluzione della malattia durante tutto l’arco di vita), continua a mantenere acceso il dibattito fra chi sostiene che “si può fare” e chi, dati alla mano, cerca di spiegare il perché certi messaggi sono pericolosi e fuorvianti.
  2. Teoria dell’evitamento dell’agente patogeno. Fanno parte di questa teoria tutti quei comportamenti che riguardano il tenersi lontani da parassiti e agenti patogeni. Secondo tale teoria, l’obesità, la quale si presenta con attributi fisici visibili, potrebbe essere percepita coma malattia “contagiosa”, attivando in chi la osserva, una sorta di “sistema di rilevamento dei patogeni”. Ciò porterebbe a provare ribrezzo e ad evitare fisicamente le persone con obesità, al fine di prevenire un’eventuale “infezione”. Naturalmente, tutto ciò, avverrebbe a un livello inconscio di consapevolezza per cui, chi manifesta una simile preoccupazione, non si renderebbe conto di essere soggetto alla sua influenza.
  3. Teoria del consenso sociale. Tale teoria sottolinea come la rappresentazione negativa e stereotipata dell’obesità da parte dei media, possa diffondersi nella società mediante il meccanismo del consenso sociale. Sappiamo infatti che le persone tendono a cambiare i propri atteggiamenti in base all’accettabilità sociale che una certa “idea” ha nel proprio contesto di riferimento. Il fatto che lo stigma sia socialmente accettato da un’ampia fetta di popolazione, fa sì che gli individui si trovino in accordo con tale visione condivisa dell’obesità. Inoltre, ciò spiega anche come mai le persone stesse che soffrono di obesità, si svalorizzino e accettino i trattamenti negativi e le etichette affibbiate loro da chi non appartiene alla loro “categoria” (stigma interiorizzato).

Da queste posizioni teoriche si è preso spunto al fine di progettare interventi mirati alla riduzione dello stigma.

Essi si pongono diversi obiettivi:

  1. modificare le credenze relative alle cause e alla controllabilità dell’obesità: si tratta di divulgare corrette informazioni rispetto alle cause dell’obesità sottolineando il ruolo della genetica e dei fattori biologici e sociali. Una simile comunicazione avrebbe lo scopo di sradicare gradualmente l’idea che l’obesità sia sotto il controllo personale, convinzione alla base dello stigma.
  2. evocare empatia e accettazione: sottolineare come il mettersi nei panni dell’altra persona possa essere utile a capirne il punto di vista, le difficoltà e i vissuti. Illustrare le sfide che il vivere in una condizione stigmatizzata comporta affinché si capisca l’impatto sociale e personale che questo modo riduzionistico di dipingere la malattia ha sulle persone che ne soffrono.
  3. elicitare il consenso sociale: sfruttare lo stesso meccanismo del consenso sociale menzionato in precedenza, al fine di modificare gli atteggiamenti di coloro che ancora supportano le convinzioni dello stigma. Ciò sarebbe fattibile attraverso un dibattito costruttivo fra chi divulga informazioni per ridurre i pregiudizi (specialmente se si tratta di persone influenti o conosciute, su cui si ripone fiducia) e chi ascolta. Una sorta di “contagio positivo” di opinioni in cui, anziché diffondere messaggi falsi e negativi, si diffondono punti di vista complessi e dotati di fondamento.
  4. favorire il contatto: conoscere in prima persona individui affetti da obesità aiuta a generare un contrasto fra le idee diffuse sulla categoria e ciò che si può direttamente osservare con i propri occhi. Basta conoscere personalmente un qualsiasi individuo affetto da obesità, infatti, per smentire molti dei falsi miti circolanti a proposito dell’obesità: pigrizia, mancanza di forza di volontà, scarsa intelligenza, ecc.
  5. Aumentare la consapevolezza e creare dissonanza cognitiva: in questo caso si fa leva sulle caratteristiche personali di un soggetto (per esempio la sua gentilezza o i suoi valori personali) al fine di creare dissonanza col fatto che essa nutra degli stereotipi nei confronti di una determinata categoria sociale. Per esempio una critica autoriflessione potrebbe ridurre lo stigma in quanto si stimola la persona a riflettere sui propri valori e su come essi si esprimano, concretamente, nei suoi comportamenti.

Purtroppo, come dimostrano i fatti, c’è ancora molto da lavorare. Nonostante gli sforzi compiuti da coloro che cercano di diffondere una corretta informazione ed estirpare i miti sull’obesità e sulle persone che la vivono, la presenza dello stigma è ancora forte, anche fra i sanitari stessi che si occupano in modo più o meno diretto di questa patologia.

Non di poco conto, in questo panorama, è il ruolo svolto dall’industria della diet culture che, come sottolineato altrove in questo blog, spinge per responsabilizzare il paziente affinché esso compia scelte ben precise per occuparsi della sua malattia: fare acquisti!

E in questo, proprio l’andamento cronico della malattia appare particolarmente fruttuosa per chi cavalca il mercato delle diete e della perfetta forma fisica: per un po’, grazie al miracoloso prodotto/servizio, il peso sembra rimanere sotto controllo; peccato, però, che una volta terminato l’effetto (ed ecco che qui entra in gioco la mancanza di forza di volontà che serve a coprire ogni pecca), il peso ritorni a essere quello di partenza o, molto più probabilmente, maggiore di quello di partenza, in una escalation infinita di “soluzioni temporanee” che, quindi, soluzioni non sono.

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