Risale solamente a ieri la notizia, a mio avviso sconcertante, di un dispositivo che promette di far dimagrire le persone impedendogli di aprire la bocca. Un dispositivo che, applicato ai molari, impedirebbe l’apertura oltre i due millimetri al fine di indurre il soggetto a seguire un’alimentazione completamente liquida.
Una news che potremmo anche semplicemente ignorare se non fosse che si tratta dell’ennesima trovata che evidenzia come siamo ancora lontani dall’aver compreso la complessità di una patologia che non rappresenta banalmente l’eccessiva indulgenza alimentare di chi ne soffre.
I racconti medioevali sugli introiti calorici che superano il dispendio energetico hanno davvero stufato.
Continuare a comunicare alle persone con obesità in questi termini significa non sapere nemmeno di cosa si stia parlando. Non solo: significa colpevolizzarle, renderle autrici della propria patologia, scalfirne l’autostima, limitarne il potenziale d’azione.
Più leggiamo di serrature alla bocca o al frigorifero, più ci convinciamo che la spiegazione all’eccesso di peso stia tutto lì quando invece, è faccenda ben più complessa. Talmente complessa che molti punti rimangono ancora oscuri persino per il mondo scientifico.
Ma qualche cosa, a dire il vero, per fortuna la sappiamo.
Mi riferisco alla funzione del cibo nei confronti della regolazione dell’omeostasi, da un punto di vista tanto energetico quanto psico-fisiologico.
Una funzione mediata dal cosiddetto Brain Reward System ossia dal sistema cerebrale di ricompensa il quale fa si che le sensazioni piacevoli legate a un desiderio soddisfatto vengano rinforzate (e quindi emesse nuovamente in futuro).
In altre parole, ogni esperienza piacevole vissuta come gratificazione, come ricompensa (reward), tende a sollecitare comportamenti che portano alla stessa esperienza (che sia l’assunzione di cibo, una carezza, il sesso o la droga).
Non parliamo quindi di cibo come mero strumento di rifornimento energetico ma di qualcosa in grado di influenzare potentemente il nostro equilibrio, la nostra ricerca di piacere, la nostra omeostasi.
Non per niente l’ingestione di comfort food va di pari passo con l’eccesso di glococorticoidi, ormoni prodotti in risposta a situazioni di stress cronico. L’assunzione di tali alimenti, infatti, sembra costituire un tentativo di ridurre gli effetti negativi di stressori cronici, stimolando i meccanismi del piacere.
Sistema digerente e e sistema emozionale cerebrale sono strettamente connessi.
La gente mangia comfort food nel tentativo di ridurre l’ansia ed i messaggi provenienti dall’apparato digerente influiscono in maniera positiva sull’umore. Questo è il meccanismo con il quale si attiva una ricerca compensatoria e a volte ossessiva del cibo quando il tono dell’umore è basso. Ma è anche il meccanismo per il quale la “pancia” può diventare bersaglio di malattie psicosomatiche (coliti, gastriti) a partire dai segnali provenienti dal sistema nervoso.
Se il cibo, in condizioni stressanti o traumatiche funge da consolazione, la sua ricerca ossessiva ci informa sul tentativo che la persona sta compiendo per ricercare il suo equilibrio omeostatico, un tentativo di “autocura”, messo in atto per contrastare uno stato di sofferenza.
In questo senso il cibo riempie dei vuoti e l’aumento di peso costituisce un “danno necessario” che protegge da disturbi più gravi (Fernandez-Real JM et al., 1999).
Ecco perché la ricerca compulsiva di cibo non dovrebbe essere vista come il nucleo centrale della patologia ma come un tentativo di guarigione dell’organismo che rincorre il proprio equilibrio omeostatico.
La soluzione, in altri termini, non può essere rappresentata dalla mera rieducazione alimentare ma deve coinvolgere la persona nella sua totalità (mente/corpo).
Pensare di intervenire sul sistema di ricompensa (BRS), geneticamente programmato a ricercare il piacere e a ridurre il dolore, imponendogli di andare controcorrente (limitando l’assunzione di cibo), significa adottare una strategia che non è minimamente contemplata dal sistema stesso.
Se il cibo costituisce un “premio”, non possiamo togliere il cibo. Altrimenti potremmo indurre una risposta compulsiva verso altre forme di gratificazione (alcol, droga).
Possiamo, invece, apprendere nuovi schemi di risposta: la musica, la danza, l’espressione corporea, le tecniche di meditazione, al fine di introdurre nuovi meccanismi di ricompensa.
Molta letteratura scientifica concorda ormai sul fatto che l’approccio dietetico restrittivo, applicato a situazioni di sovrappeso e obesità, costituisce un fattore di rischio aggiuntivo importante per i Disturbi del Comportamento Alimentare, innescando meccanismi di disinibizione verso il cibo, fino alla bulimia (Lowe MR., 1993).
La privazione del cibo, anche volontariamente accettata, viene vissuta dal sistema emozionale come una minaccia all’integrità biologica.
Ecco perchè il “fallimento” della dieta rappresenta, in realtà, una strategia di sopravvivenza in risposta a una minaccia.
Il fallimento dell’approccio dietetico restrittivo ha portato il mondo medico e scientifico a rimettere in discussione la proprie posizioni, spostando l’attenzione dal controllo dell’apporto nutrizionale, basato su un calcolo matematico dell’introito calorico, agli stili di vita, implicando una considerazione degli aspetti psico-emozionali.
La comprensione dei meccanismi che sono alla base della conservazione del peso permette di non imputare al paziente i fallimenti delle diete, con conseguente perdita di autostima, specialmente in coloro che hanno una tendenza depressiva.