Obesità essenziale e obesità secondarie – non diamo tutta la colpa alla genetica

Ricordo un periodo della mia vita, frequentavo le scuole medie, in cui era solida la convinzione che l’obesità, e quindi le persone obese, esistessero quali problemi imputabili a fattori esclusivamente genetici. Si pensava, allora, che noi persone “in carne”, fossimo dei poveri malcapitati a cui era toccata in sorte la piaga del grasso in eccesso e che poco o nulla sarebbe valso la pena fare per porvi rimedio.

Può darsi che i miei ricordi di adolescente mi tradiscano ma credo che, almeno in parte, questa convinzione che i geni siano gli unici, brutti e cattivi, responsabili dei chili in eccesso sia rimasta ancora una forte eco per molti. Al di là delle conoscenze scientifiche che hanno consentito di sfatare la solidità di questo legame gene-patologia, riconoscendo una pluralità di fattori come responsabili della malattia, farebbe comodo un po’ a tutti pensare che la responsabilità sia da ricercare fuori da sé. Anche se per alcuni potrebbe suonare come una condanna a vita, quella dei “geni sfortunati” è pur sempre una teoria in grado di sollevare dal peso della colpevolezza di essere noi gli autori della nostra condizione.

La verità, per il bene di tutti, sta nel mezzo. Se è vero che l’obesità non è in toto da attribuirsi a fattori genetici è anche vero, bando agli stereotipi che vogliono affermare il contrario, che la stessa sia da ascrivere esclusivamente alla responsabilità del soggetto. Troppo semplice, quindi, dire a una persona sovrappeso che è solo colpa sua se non riesce a dimagrire: ricerche alla mano, oggi sappiamo che questa è una fandonia capace solo di abbassare ulteriormente l’autostima di chi la subisce.

Ma allora, quanto conta davvero questa fantomatica predisposizione genetica e quanto, invece, conta come ci comportiamo a tavola?

Gli studi condotti sulle coppie di gemelli monozigoti (che condividono il medesimo patrimonio genetico) mostrano che gemelli appartenenti alla stessa coppia tendono ad avere incrementi ponderali simili. Tali evidenze, assieme ad altri dati raccolti negli anni dalle ricerche sul tema, mostrano come l’indice di massa corporea (il famoso IMC) sia in gran parte determinato geneticamente con un tasso di ereditabilità che può variare dal 40% al 70%. Ad oggi, sono stati individuati più di 250 geni e markers associati all’obesità ed il loro numero è in continuo aumento, tanto per rendere l’idea di quanto complesso sia lo studio di questa patologia. Ciò non toglie, come abbiamo detto in precedenza, che un soggetto cosiddetto predisposto, debba arrendersi all’inevitabilità di essere malato. In realtà l’obesità si manifesta a seguito della presenza e dell’azione di svariati fattori che la favoriscono: primo fra tutti lo stile di vita che, a sua volta, è fortemente condizionato da quella che possiamo definire la società dei consumi. È proprio in questo gruppo che rientrano tutti quei casi di obesità definita essenziale, ovvero un’obesità determinata da uno squilibrio tra energia introdotta ed energia consumata al quale, a onor del vero, appartiene il 90% della popolazione obesa. In questo caso, il ruolo dei geni come responsabili della malattia, viene stimato attorno al 40%, affianco ai quali si situano i fattori legati al metabolismo e quelli che determinano la spesa energetica quotidiana. Ne consegue che, agendo sul consumo energetico da attività fisica, sui fattori dietetici e sulle abitudini legate al comportamento alimentare, è possibile fare la propria parte promuovendo od ostacolando la propria predisposizione.

Diverso è invece il caso in cui un soggetto soffre di obesità secondaria: una forma di obesità in cui la condizione stessa è determinata da un altro stato patologico. In questa categoria rientra solo una minoranza dei pazienti (circa il 5%); si tratta dunque di casi rari in cui, per giunta, i livelli di obesità non raggiungono quelli tipicamente riscontrabili nei casi di obesità essenziale. Sono ascrivibili in questo gruppo: la sindrome di Prader-Willi e di Bardet-Biedl, presenti fin dalla nascita, le forme derivanti da alterazioni della funzionalità ipotalamica, la sindrome di Cushing (ipercortisolismo) e le altre malattie endocrine (es. sindrome dell’ovaio policistico nella donna o ipogonadismo nell’uomo) ma anche forme di obesità legate a psicopatologie (DCA) od all’assunzione di farmaci in grado di alterare l’appetito. In tutti questi casi, così diversi fra loro, è necessario un intervento specifico che sia costruito sulla peculiarità del problema ed è più probabile che il successo terapeutico sia raggiungibile mediante un approccio multidisciplinare.

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