Nelle brevi vacanze che mi sono concessa questa estate, non avrei mai potuto mancare l’appuntamento con il Museo della Follia, mostra itinerante curata da Vittorio Sgarbi. Per l’esposizione a Salò è stato scelto il MuSa, un magnifico monumento di architettura Seicentesca. Durante il percorso è possibile apprezzare dipinti ma anche installazioni, fotografie ed oggetti appartenenti ai pazienti ricoverati nell’ex manicomio di Teramo. Questi ultimi, a mio modesto avviso, sono stati proprio i più significativi di tutta la mostra. Le lettere dei degenti ai parenti, le parole appuntate sulle loro cartelle cliniche dagli operatori, le camicie, un apri bocca, un boccetto vuoto di medicinale, le immagini degli ambienti fatiscenti e abbandonati…tutto questo è raccolto nella “stanza dei ricordi”: “nulla di strano o di originale, nulla di specifico; tutto di doloroso”, sono le parole usate dal curatore per descrivere questo luogo.
Intensa e toccante anche la “stanza della griglia”: creata a partire dai ritratti ritrovati nelle cartelle cliniche di alcuni ex-manicomi. Lo spettatore, premendo un grosso pulsante rosso, può accendere il grande neon posto a contorno delle immagini per dare “luce e rumore ai pensieri di ciascun volto”. Ed è proprio questa l’impressione che si ha premendo quel tasto: i volti, gli occhi, le bocche, comunicano con chi le osserva e il suono sembra riecheggiare nei meandri della coscienza. Un suono muto, sordo e, proprio per questo, penetrante.
Naturalmente non sono da meno le opere dei famosi artisti che addobbano le pareti del museo: gli animali domestici e selvaggi di Ligabue, le donne e gli uomini solitari di Pietro Ghizzardi, la malinconia de “L’Adolescente” di Silvestro Lega, le teste disturbate e disturbanti di Bacon, il “Primario” immerso nella betoniera di Cesare Inzerillo e, ancora, “I dimenticati” di Vincenzo Baldini, l’ipnotico “I muri ci guardano” di Bettin, un inaspettato Enrico Robusti con “La plafoniera dei nostri sogni”. Non elenco qui tutti gli autori esposti ma potete tranquillamente visionarli sul sito internet dedicato alla mostra http://www.museodellafollia.it
Non è mia intenzione offrire spunti di riflessione né esprimere opinioni sulla mostra ma volevo solo offrirvi uno spaccato di questa mia esperienza. I prodotti artistici degli autori, d’altra parte, hanno già molto da comunicare. La psicologia e l’arte hanno trovato modo di intrecciarsi in diverse e numerose modalità nel corso del tempo e mostre come questa ne sono la testimonianza. L’arteterapia è oggi una modalità di usare l’arte come cura ampiamente riconosciuta e sfruttata negli ambiti più disparati e con le utenze più differenti. Ma sarebbe scorretto parlare delle produzioni artistiche dei malati usando i termini “arte psicopatologica” o “malattia creativa” come avveniva in passato. Il binomio arte/follia non è che uno stereotipo letterario. Abbiamo imparato, grazie a figure come quella di Hans Prinzhorn, psichiatra tedesco, che le opere dei malati psichiatrici non devono essere considerate rappresentazioni di un sintomo bensì come legame tra forma e affetti, prova inconfutabile che l’arte soddisfa una necessità interiore di esprimersi, per tutti. Anche secondo Ba (2003), l’opera di un paziente costituirebbe la manifestazione della sua personalità e non soltanto la prova del suo stato di salute. Il meccanismo creativo appare dunque generativo anziché degenerativo. Secondo Kramer (1977) poi, la realizzazione di prodotti artistici è un modo per esternalizzare, ri-sperimentare e risolvere sentimenti conflittuali. L’autrice concepisce quindi l’oggetto d’arte come “contenitore di emozioni”…e sono proprio queste emozioni che ci colpiscono quando ci beiamo dello splendore di certe produzioni artistiche.
Si usano gli specchi per guardarsi il viso, e si usa l’arte per guardarsi l’anima.
George Bernard Shaw