
Esiste una risposta al trauma che è forse la più subdola e pervasiva fra tutte; una modalità di sopravvivenza che, tagliando fuori dalla vita una quantità sempre maggiore di esperienze e di sfide, rimpicciolisce la portata d’azione di chi ne è vittima.
Sto parlando dell’evitamento: un meccanismo che nasce per allontanarsi da ciò che fa troppo male per essere tollerato. Una risposta intelligente del corpo, un modo di dire “non posso sopportarlo ora”, che tuttavia, col tempo, si allarga, come un’ombra che si estende su tutto.
Se dapprima esso riguarda solo ciò che ricorda il trauma — i luoghi, le persone, i conflitti — gradualmente si estende anche alle emozioni, alle sensazioni corporee, e a ciò che prima era fonte di piacere.
Fino a che si evita la vita stessa.
Quando il trauma restringe il mondo
Nel saggio Fantasmi nel Sé, Van der Hart e Steele (1999) descrivono questo fenomeno chiamandolo fobia della vita normale. È ciò che accade quando, attraverso meccanismi come il condizionamento classico, operante e valutativo, la paura si generalizza fino a coinvolgere ogni aspetto dell’esistenza. Anche stimoli che, apparentemente, ricordano solo da lontano il trauma originario, diventano sufficienti e generare orrore, paura, ritiro.
Il corpo codifica anche i compiti più semplici come pericolosi e si ritira progressivamente dal mondo. Non evita solo il passato, ma anche il presente.
Le situazioni quotidiane — parlare con qualcuno, iniziare un progetto, sentire il desiderio, prendere decisioni — diventano insidiose, perché attivano emozioni che un tempo erano insopportabili.
Van der Hart e Steele spiegano che questa iperattivazione cronica dei sistemi difensivi (lotta, fuga, blocco, sottomissione) impedisce l’attivazione dei sistemi di azione della vita quotidiana: esplorare, creare, amare, giocare, prendersi cura.
E così, lentamente, la vita si restringe.
Le forme sottili dell’evitamento
L’evitamento raramente appare come paura evidente. Più spesso assume forme socialmente rispettabili, persino produttive: un’attenzione minuziosa alle cose da fare, il bisogno di tenere tutto sotto controllo, il parlare incessantemente, il ridere per non sentire, l’impegnare un tempo eccessivo nelle faccende domestiche.
A volte, ci si rifugia in emozioni più “accettabili”, come la vergogna o la colpa, che sembrano più gestibili di altre — come la rabbia, la paura o il desiderio.
Ma queste difese, nate per proteggerci, finiscono per restringere il campo della coscienza, tagliando fuori proprio ciò che ci rende vivi.
Come scrive Bessel van der Kolk (2014):
“ciò che un tempo ha permesso di sopravvivere può, nel presente, diventare la prigione che impedisce di vivere”.
La normalità che fa paura
La fobia della vita normale è questo: la paura della quotidianità.
Non un evento catastrofico, ma il gesto semplice del vivere — la spontaneità, la vicinanza, il contatto.
Il trauma insegna che sentirsi vivi è pericoloso: ogni emozione intensa potrebbe riattivare il dolore.
Le neuroscienze confermano questo processo: dopo esperienze traumatiche ripetute, il cervello rimane in uno stato di iperallerta. L’amigdala è iperattiva, mentre la corteccia prefrontale, che valuta il contesto e modula la risposta emotiva, fatica a discriminare tra minaccia reale e percepita (Lanius et al., 2010).
In questo stato, persino la gioia o il desiderio possono essere letti come potenziali pericoli.
Il risultato è una vita a bassa intensità: sicura, controllata, ma priva di spontaneità. Una sopravvivenza, non una vita piena.
Il corpo come luogo dell’evitamento
Nei disturbi dell’alimentazione e nell’obesità, l’evitamento del corpo è una delle ferite più profonde.
Il corpo, che dovrebbe essere casa, diventa un territorio sconosciuto, a volte nemico.
Molti pazienti raccontano di “non sentire” fame, sazietà o emozioni: è una dissociazione corporea che protegge, ma isola (Dalle Grave, 2022).
Mangiare troppo o non mangiare abbastanza diventano modi per evitare la sensazione di presenza: il cibo anestetizza, riempie, distrae, tiene lontano dal sentire.
L’ossessione per la forma del corpo o per il controllo calorico sono altrettante espressioni della stessa paura: quella di tornare in contatto con sé. Non è un caso se molte persone con obesità sono quasi terrorizzate dal provare (almeno all’inizio) approcci più liberi e consapevoli all’alimentazione: quali la Mindful eating o l’alimentazione intuitiva. Esse temono che l’incantesimo si interrompa e che non riusciranno mai più a riprendere il controllo, seppure fittizio e intermittente, sul cibo.
Tornare a sentire
Guarire dal trauma non significa dimenticare, ma reimparare a vivere.
Significa permettere al corpo di tornare in contatto con le emozioni senza esserne travolto; riconoscere che il pericolo non è più qui; dare spazio a ciò che era stato escluso: curiosità, gioco, contatto, desiderio.
La terapia del trauma lavora proprio su questo: espandere gradualmente la finestra di tolleranza (Siegel, 1999; Ogden et al., 2006), aiutando la persona a restare presente, a sentire, a riabitare la propria vita.
Come scrivono Van der Hart e colleghi, “la cura del trauma è la cura della fobia della vita normale”.
Ritrovare sicurezza nel corpo, fiducia nelle relazioni e un senso di agency nel mondo significa rianimare le parti di sé che erano state messe a tacere.
Tornare a vivere — davvero — è un atto di coraggio.
È imparare a restare, anche quando fa paura.
È scoprire che la normalità, quella fatta di emozioni, imprevisti e relazioni, non è più un campo minato, ma un terreno in cui è possibile di nuovo camminare.
Riferimenti
- Van der Hart, O., Nijenhuis, E., Steele, K. (1999). The Haunted Self: Structural Dissociation and the Treatment of Chronic Traumatization.
- van der Kolk, B. (2014). Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina.
- Siegel, D. (1999). The Developing Mind. Guilford Press.
- Ogden, P., Minton, K., Pain, C. (2006). Trauma and the Body: A Sensorimotor Approach to Psychotherapy. Norton.
- Lanius, R., Vermetten, E., Pain, C. (2010). The Impact of Early Life Trauma on Health and Disease. Cambridge University Press.

Lascia un commento