(e 5 strategie per affrontarlo)

Fin dagli inizi della mia attività come psicologa alimentare, ho spesso dedicato molta attenzione al tema del “tutto o niente” alimentare. Una tipologia di pensiero, meglio definita come pensiero dicotomico, ampiamente diffusa in chi soffre di disfunzioni alimentari. Un modo di pensare l’alimentazione come qualcosa che: o è sotto il completo controllo personale, oppure è un totale disastro. Senza alcuna possibile lettura alternativa.
In passato, sia sul blog che nel mio primo libro “La vita oltre il peso”, ho parlato di questo argomento da un punto di vista esclusivamente cognitivo. Ossia esaminando come esso si esprime nel dialogo interno delle persone con obesità e come è possibile smontarlo da un punto di vista logico, mediante alcune tecniche di messa in discussione.
In questo articolo, invece, vorrei parlare di come affrontare questo tipo di ragionamento, quando esso è frutto di una storia traumatica complessa.
Trovo infatti doveroso affiancare a una lettura più cognitiva del fenomeno, una interpretazione più simbolica ed emotiva che rispecchi il vissuto di chi, questo tipo di pensiero, lo adotta in risposta a una storia di relazioni precoci sfavorevoli e imprevedibili ripetute.
Nel trauma complesso, il controllo rigido sul cibo o, al contrario, la perdita di controllo, sono spesso due poli della stessa struttura dissociativa:
- Una parte che controlla (orientata alla sopravvivenza, al funzionamento, al “faccio la brava”, al compiacimento);
- Una parte impulsiva o bisognosa (carica di emozioni arcaiche, desideri, fame affettiva e rabbia repressa).
Queste due parti non comunicano bene e il passaggio da una all’altra avviene come un interruttore: restrizione → abbuffata → colpa → nuova restrizione.
Si tratta di un ciclo “tutto o niente” che ha una funzione regolativa, cioè serve a tenere a bada emozioni ingestibili.
Le radici traumatiche del pensiero dicotomico sul cibo
Nel trauma relazionale precoce il bambino spesso vive:
- Esperienze di nutrimento incongruente (cura invadente, incoerente o imprevedibile);
- Messaggi contraddittori sull’amore e sul bisogno (“ti amo solo se sei brava/controllata/leggera/compiacente”);
- Assenza di validazione emotiva (non c’è spazio per la rabbia o per la fame affettiva).
Il risultato è che il cibo diventa un territorio simbolico in cui si giocano i conflitti fra:
- Fame vs controllo;
- Dipendenza vs autonomia;
- Amore vs punizione
Quindi, quando, dopo un’abbuffata, ti rivolgi frasi come “ho rovinato tutto”, “sono un* fallit*” in realtà sei al cospetto della riattualizzazione di una dinamica interna fra aspetti del Sé contrapposti, non solo parlando di cibo.
Come puoi lavorarci?
Lo scopo della terapia, quando ci troviamo al cospetto di questo rigido passaggio fra poli opposti, è quello di ammorbidire la visione, arricchendo lo spettro di posizioni possibili di fronte a un evento (come può essere l’abbuffata). E questo può avvenire solo dando voce a tutte le parti.
Senza la pretesa di sostituire un percorso di terapia, in questo articolo condividerò con il lettore
5 strategie pratiche estremamente efficaci per iniziare a smussare i contorni del pensiero rigido.
- DARE VOCE ALLE PARTI
Per iniziare a prendere confidenza con le proprie parti di sé che mostrano volontà contrapposte rispetto al cibo (estremo controllo VS abbuffata irrefrenabile) occorre iniziare a riconoscere chi parla nei diversi momenti. Prova a chiederti:
- Chi è la parte che vuole controllare tutto?
- Cosa teme accadrà se perde il controllo?
- Chi è la parte che vuole mangiare senza limiti?
- Cosa cerca di ottenere (piacere, conforto, libertà, disconnessione)?
L’obiettivo non è eliminare una delle due ma favorire il dialogo interno. Puoi anche svolgere l’esercizio immaginando un vero e proprio dialogo fra le due parti (come se fossero personaggi), per vedere se possono ascoltarsi a vicenda senza giudizio.
- RINFORZARE LA FINESTRA DI TOLLERANZA
Quello della finestra di tolleranza è un concetto molto utile per capire come il nostro sistema nervoso reagisce al cospetto di alcune situazioni e come vi reagisce di conseguenza, aiutandoci a prendere determinate decisioni, in funzione di come ci sentiamo. Quando siamo “in finestra” significa che ci troviamo in una zona ottimale di attivazione fisiologica ed emotiva in cui ci sentiamo calmi, presenti e capaci di gestire le emozioni e lo stress in modo efficace, mantenendo la lucidità di pensiero e azione. Quando, invece, siamo “fuori finestra” potremmo trovarci in due condizioni: o in iperattivazione (eccessiva attivazione, ansia, panico) o ipoattivazione (apatia, intorpidimento, spegnimento), entrambe configurazioni che impediscono il funzionamento efficace. Sviluppato da Daniel Siegel, questo concetto aiuta a comprendere la disregolazione emotiva, spiegando come esperienze avverse o stress cronico possano restringere la finestra, mentre l’intervento di terapie e pratiche di regolazione può ampliarla.
Tornando all’esempio del cibo, quando, magari dopo una copiosa abbuffata, ci diciamo cose come “ho di nuovo rovinato tutto” o “non ne uscirò mai”, ciò può essere un segnale che il sistema nervoso è uscito dalla finestra di tolleranza. Cosa dobbiamo fare, allora? Anche in questo caso è importante allenarsi a riconoscere innanzitutto i segnali corporei di attivazione (tensione, agitazione, tremore, movimenti incontrollati cosi come collasso, spegnimento, obnubilamento, ecc.) che ci avvisano che non siamo più in una condizione ottimale. Fatto ciò, si potrà proseguire con l’applicazione di una o più strategie capaci di riportarci in finestra (a seconda, naturalmente, che ci troviamo in uno stato di iperattivazione o ipoattivazione). Per esempio:
- Praticare pause regolative mediante tecniche di respirazione efficace, praticare il grounding sensoriale, poggiare una mano sul corpo per portare l’attenzione sul corpo;
- Ricorrere ad azioni che, mediante l’uso del corpo, riportino l’organismo in finestra (movimento lento, contatto, calore).
- LAVORARE CON LA FAME SIMBOLICA
Molte abbuffate non rispondono alla fame fisiologica ma a una fame di riconoscimento, presenza, sicurezza…quelle che io amo definire “fami del cuore”. Quando questo tipo di appetito si fa strada nel nostro mondo emotivo, è molto difficile farvi fronte senza ricorrere al cibo. Ma possiamo imparare a sentire questo bisogno per ciò che è realmente: una richiesta d’amore rimasta inascoltata e frustrata troppo a lungo. L’esercizio che ti propongo, anche in questo caso, è di porti delle importanti domande; alle quali potrai rispondere anche per iscritto, per fissare meglio i contenuti che emergeranno e poterli rileggere anche in future occasioni.
- Quando sento questo bisogno urgente di mangiare, di cos’altro ho fame in realtà?
- Se il cibo avesse una voce, cosa mi direbbe che sto cercando?
Non si tratta di bloccare l’azione, ma di ampliare la consapevolezza del bisogno sottostante, portando colore dentro al bianco/nero della dicotomia alimentare.
- INTEGRARE LA MINDFUL EATING E LA COMPASSIONE DELLE PARTI
Chi mi conosce sa che, da sempre, propongo la mindful eating come pratica di consapevolezza capace, in modo semplice, di ricreare una fondamentale riconnessione fra corpo e mente (fra fame dello stomaco e fame del cuore, se vogliamo). La mindfulness ci aiuta a osservarci senza giudizio e ciò è particolarmente terapeutico se consideriamo la tendenza all’autocritica spietata che caratterizza chi soffre di disfunzioni alimentari (si critica il corpo, si critica il proprio modo di mangiare, si critica la propria presenta mancanza di autodisciplina e così via…). Ma se il conflitto col cibo, a maggior ragione, è l’espressione di traumi profondi e radicati nelle relazioni, allora la self-compassion è ciò che può rinforzare ancor di più i benefici dell’autoconsapevolezza. Come sfruttare queste due importanti risorse terapeutiche? Ti propongo un paio di esercizi:
- Durante un pasto, immagina di nutrire anche la parte arrabbiata o spaventata dentro di te;
- Dopo un episodio di perdita del controllo sul cibo, pratica un rituale di cura (una frase compassionevole, un gesto fisico di conforto). Insomma pratica un’azione che rappresenta l’opposto di ciò che faresti abitualmente (sgridarti, deprimerti, criticarti, punirti).
- COSTRUIRE UN PENSIERO COMPLESSO SUL CIBO
Il nostro modo di concepire il rapporto col cibo si riflette, ed è a sua volta il riflesso, del modo in cui ne parliamo. Badare quindi al linguaggio che utilizziamo è un esercizio fondamentale per non trascurare una parte importante del lavoro. Il pensiero “tutto o niente”, infatti, è connotato da espressioni verbali estreme, rigide, opposte, che non prevedono vie di mezzo. Quello che ti propongo di fare è:
- Sostituire i “sempre/mai” con “a volte/spesso”;
- Riscrivere il racconto di un episodio alimentare in modo più sfumato e facendo particolare attenzione agli aggettivi (scegli accuratamente i descrittori da utilizzare, senza porre enfasi eccessiva a ciò che non ti piace);
- Esplorare più verità insieme (per es. “mi sono abbuffata ma ho anche provato sollievo”, oppure “mi sento in colpa e capisco che stavo male”).
Questi piccoli atti linguistici allenano la mente a tollerare le sfumature, ricercando verità dai contorni più morbidi e variopinti.
Ricorda: l’obiettivo finale di questi esercizi non è “mangiare bene”. Questo, di fatto, rappresenterebbe l’esatto il contrario di dare ascolto a entrambe le voci (quella che vuole mangiare senza limiti e quella che vuole ipercontrollare). L’obiettivo è invece integrare le polarità interne, in un equilibrio fra
controllo e piacere, libertà e confini, nutrimento e sicurezza.
Quando queste esperienza diventano compatibili, il cibo smette di essere teatro di guerra e torna ed essere una relazione.

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