
Nel mio terzo libro, “La fame nel cuore”, ampio spazio è dedicato al tema dell’utilità delle abbuffate per il sistema psichico dell’individuo che le mette in atto.
Sembra inverosimile, infatti, che ancora oggi esistano professionisti che cercano di debellare le disfunzioni alimentari attraverso diete e metodi focalizzati sul controllare l’introito di cibo, ignorando del tutto i meccanismi psicologici che mantengono attivi questi comportamenti. Prescrivere una dieta a chi soffre di abbuffate è come levare la stampella a chi ha una zoppìa.
Non solo è totalmente insensato ma può peggiorare il problema, lasciando alla persona la sensazione di “essere sbagliata” poiché la terapia non sembra funzionare.
Eppure, di casi del genere ne sento ogni giorno.
Ecco perché, ancora una volta, ho voluto dedicare un articolo al senso delle abbuffate. Un argomento sempre dibattuto che spesso non trova risposte adeguate.
Come ai più è noto, ci sono momenti in cui non si mangia per fame. Si mangia per calmarsi, per spegnere la tensione, per riempire un vuoto che sembra troppo grande da tollerare. In questi casi il cibo diventa un rifugio, un modo per regolare emozioni difficili.
Ma perché accade questo? La risposta, sempre più chiara nella ricerca, ha a che vedere con il ruolo dell’attaccamento: il legame affettivo che si sviluppa fra il bambino e le sue figure di accudimento, al fine di garantire sicurezza, cura, protezione. Tale legame è il canale attraverso il quale impariamo a regolarci e, una volta interiorizzato, diventa una lente con la quale leggere noi stessi e gli altri ma anche una guida per muoverci nel mondo, filtrata dalle aspettative. Quando questo legame è stato sufficientemente prevedibile, solido e coerente, possiamo contare su un legame cosiddetto sicuro, in cui ci sentiamo liberi di esplorare il mondo sapendo di poter contare sull’altro. Tuttavia, quando il legame che si è sviluppato coi caregiver (genitori o altre figure primarie) è fragile, imprevedibile o addirittura pericoloso, il cibo può diventare un sostituto della capacità regolatoria che normalmente nasce dalle relazioni.
Attaccamento: la base della regolazione emotiva
Grazie a John Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, sappiamo che i bambini, per seguire una sana traiettoria di sviluppo, non hanno solo bisogno di nutrimento, ma soprattutto di sicurezza, sia fisica che emotiva. Un caregiver sensibile e disponibile, da questo punto di vista, diventa una “base sicura” da cui esplorare il mondo e a cui tornare nei momenti di stress.
In pratica, è grazie all’attaccamento che impariamo a regolare le emozioni: prima affidandoci alla calma dell’adulto, poi interiorizzando quelle stesse strategie di autoregolazione al fine di poterle sfruttare autonomamente. Quando però la figura di attaccamento è incoerente, assente o spaventata/spaventante, il bambino può crescere con un senso di vulnerabilità emotiva e con difficoltà a calmarsi da solo (Mikulincer & Shaver, 2007).
Quando manca la base sicura, entra in gioco il cibo
Per chi ha sviluppato un attaccamento cosiddetto insicuro, le emozioni negative – come solitudine, rabbia o ansia – possono sembrare ingestibili. Ecco che il cibo assume una funzione diversa: non più nutrimento, ma strumento di regolazione.
Nelle abbuffate, il cibo diventa:
- un anestetico contro emozioni troppo intense;
- un riempitivo di un vuoto affettivo;
- una sorta di “abbraccio chimico” immediato, ma passeggero.
Come osservano Polivy e Herman (2002), l’alimentazione compulsiva spesso non ha nulla a che fare con la fame biologica, ma con il tentativo di gestire emozioni che sembrano insopportabili.
Abbuffate come sostituto relazionale
Il cibo, in questi casi, prende il posto della relazione che dovrebbe dare sicurezza. L’atto di mangiare in modo compulsivo funziona come una regolazione esterna: il sollievo c’è, ma dura poco e lascia dietro di sé senso di colpa e vergogna.
Questo spiega perché chi soffre di binge eating non è “debole” o “goloso”, ma utilizza il cibo come una strategia – disfunzionale, certo, ma pur sempre una strategia – per reggere emozioni e stati interni difficili da contenere.
Cosa dice la ricerca sul legame tra attaccamento e abbuffate
Diversi studi hanno confermato l’associazione tra stili di attaccamento insicuri (soprattutto dei sottotipi ansioso e disorganizzato) e disturbi dell’alimentazione caratterizzati da abbuffate. Le persone con attaccamento ansioso tendono a usare maggiormente il cibo come fonte di conforto, mentre chi ha attaccamento evitante può oscillare tra controllo rigido e perdita di controllo (Ward et al., 2001; Tasca & Balfour, 2014).
In altre parole, quando manca un legame affettivo sicuro che aiuti a regolare emozioni e stress, il cibo può diventare una “protesi” emotiva.
Ciò non significa che tutte le persone con attaccamento insicuro svilupperanno un disturbo alimentare, ma il legame è significativo e spiega perché le abbuffate non possono essere ridotte a un semplice problema di volontà.
Implicazioni cliniche
Se le abbuffate hanno anche una funzione regolatoria legata all’attaccamento, allora il trattamento non può limitarsi a “controllare il cibo”.
Ecco allora che la terapia diventa uno spazio in cui ricostruire:
- fiducia relazionale, cioè la possibilità di affidarsi a qualcuno, senza timore;
- competenze di regolazione emotiva, alternative all’uso del cibo;
- un nuovo modo di vivere le emozioni, senza esserne sopraffatti.
Le abbuffate non sono un capriccio né una mancanza di disciplina.
Sono spesso il segnale di un bisogno più profondo: quello di una base sicura che non si è avuta, e che si cerca – temporaneamente e ripetutamente – nel cibo.
Capire come il cibo possa sostituire la funzione regolatoria dell’attaccamento non significa giustificare le abbuffate, ma riconoscerne il senso. Significa altresì passare da una visione dell’individuo come” difetatto” o “debole” a una lettura profonda del suo comportamento che, lungi dall’essere un vizio o l’espressione di una mancata di forza di volontà, rappresenta un’intelligente soluzione alla mancanza di una relazione sicura sulla quale poter contare.
Solo da questa consapevolezza può nascere un percorso terapeutico capace di restituire al cibo il suo posto naturale – di nutrimento e piacere – e alle relazioni umane il ruolo di vero contenitore emotivo.
Riferimenti essenziali
- Mikulincer M, Shaver PR. Attachment in adulthood: Structure, dynamics, and change. Guilford, 2007.
- Polivy J, Herman CP. Causes of eating disorders. Annu Rev Psychol. 2002.
- Ward A, Ramsay R, Treasure J. Attachment research in eating disorders. Br J Med Psychol. 2001.
- Tasca GA, Balfour L. Attachment and eating disorders: a review of current research. Int J Eat Disord. 2014.

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