
Chi non ha mai detto, magari ridendo: «sono dipendente dalla cioccolata» oppure «le patatine sono la mia droga»? È un modo di dire comune, che descrive bene la sensazione di non riuscire a fermarsi davanti a certi cibi.
Negli ultimi decenni però questa espressione è stata presa molto sul serio anche da alcuni scienziati e clinici, che hanno iniziato a parlare di food addiction, cioè di “dipendenza da cibo”.
L’idea è affascinante: se alcuni alimenti funzionano come droghe, allora forse obesità e binge eating disorder (BED) sono in realtà delle vere dipendenze.
Ma la ricerca scientifica mostra che questo paragone è più fuorviante che utile.
Da dove nasce l’idea di “food addiction”
I primi riferimenti all’“addiction” applicata al cibo risalgono addirittura al 1890, soprattutto in relazione alla cioccolata (Meule, 2015). Ma il termine “food addiction” compare ufficialmente solo nel 1956, quando il medico Theron Randolph descrive il consumo, simile a quello che si osserva nel disturbo da uso di sostanze, di alcuni alimenti comuni come grano, mais, latte o uova (Randolph, 1956).
Negli anni successivi il focus si è spostato sugli alimenti ultraprocessati: prodotti ricchi di zuccheri e grassi che, secondo i sostenitori, stimolerebbero il cervello come sostanze d’abuso (Schulte et al., 2015).
Cosa si intende per food addiction
Secondo questo modello, alcune persone sarebbero biologicamente vulnerabili a certi alimenti (soprattutto zuccheri e grassi), in un modo che ricalcherebbe la dipendenza da una sostanza, come per esempio l’alcol. Ciò comporterebbe il presentarsi di alcuni comportamenti tipici delle dipendenze:
- craving, cioè un desiderio intenso e difficile da controllare;
- perdita di controllo, come quando ci si ripromette di mangiare “solo un biscotto” e si finisce la confezione;
- uso continuato nonostante le conseguenze negative, ad esempio continuare ad abbuffarsi pur sapendo che ci si sentirà male.
Per misurare questo fenomeno è stata sviluppata la Yale Food Addiction Scale (YFAS), un questionario self-report (cioè in cui la persona valuta da sé i propri comportamenti). La YFAS si basa sui criteri di dipendenza da sostanze del DSM, adattandoli al cibo (Gearhardt et al., 2009).
Il problema? Le ricerche hanno mostrato che la YFAS tende a identificare come “dipendenti” molte persone con obesità o con abbuffate, ma senza dimostrare che si tratti davvero di una dipendenza clinica. Una revisione sistematica ha messo in evidenza questo limite, sottolineando anche un rischio di circolarità logica del tipo: sei dipendente perché hai un punteggio alto, e hai un punteggio alto perché sei dipendente (Long et al., 2015).
Le differenze con le dipendenze da sostanze
Arriviamo al punto centrale: le differenze tra obesità o binge eating e le dipendenze da sostanze. È qui che il paragone si rompe.
- Conta la quantità, non il tipo di cibo
Nel binge eating non ci sono sempre gli stessi “cibi proibiti”: si può mangiare di tutto, in quantità eccessiva. Ciò che definisce l’abbuffata è la quantità smisurata e la sensazione di perdita di controllo, non uno specifico alimento “che crea dipendenza” (American Psychiatric Association, DSM-5, 2013). - Evitamento invece che ricerca
Chi soffre di bulimia o BED passa molto tempo a cercare di evitare le abbuffate. È il contrario di chi ha una dipendenza da sostanze, che invece lotta per evitare la sostanza pur desiderandola. Una dinamica clinica molto diversa (Wilson, 2010). - La restrizione alimentare peggiora il problema
Molti episodi di abbuffata nascono dopo diete rigide e severe: più ci si impone divieti assoluti, più cresce il rischio di perdere il controllo. Nelle dipendenze da alcol o droghe invece avviene il contrario: più dura l’astinenza, minore è il rischio di ricaduta (Fairburn, 2013), ossia il decorso temporale della ricaduta è assai differente. - Fattori psicologici e sociali sono decisivi
Nel BED contano aspetti come autostima fragile, perfezionismo, difficoltà a gestire emozioni negative e stress. Le abbuffate diventano spesso un modo per placare il dolore emotivo. Non servono concetti di “cibi-additivi” per spiegare questo comportamento (Fairburn et al., 1998). - Le prove neurobiologiche sono deboli
È vero: alcuni studi hanno trovato somiglianze tra le risposte cerebrali a cibo e droghe. Ad esempio, in soggetti con obesità è stata osservata una riduzione dei recettori della dopamina nello striato (Wang et al., 2001). Ma studi successivi hanno dato risultati contraddittori (Ziauddeen et al., 2012). E soprattutto non è mai stata dimostrata una vera “sensibilizzazione al cibo” paragonabile a quella delle droghe (Finlayson, 2017). Per quanto riguarda l’obesità, un alimento in grado di attivare il sistema della ricompensa non può essere classificato come sostanza che crea dipendenza.
Implicazioni cliniche: cosa funziona davvero
Il rischio di insistere sul concetto di food addiction è quello di proporre trattamenti sbagliati, come programmi basati sull’astinenza da certi cibi, simili a quelli degli Alcolisti Anonimi. Ma sappiamo che evitare rigidamente alcuni alimenti non fa che aumentare la probabilità di abbuffarsi. Come nel caso di altre spiegazioni semplicistiche che ruotano attorno alle condizioni di obesità e di Binge eating (come per esempio la tendenza a ritenere che per dimagrire è sufficiente rifarsi all’operazione matematica delle calorie in entrata – le calorie in uscita), anche nel caso del concetto di “food addiction”, si rischia di ipersemplificare e ignorare altri importanti fattori causali. Ricordiamo, infatti, che oggi l’obesità è considerata un disturbo ereditabile neurocomportamentale, sensibile alle condizioni ambientali (O’ Rahilly S., et al., 2008). I fattori implicati nella sua manifestazione sono molteplici e vanno tenuti in debita considerazione se si vogliono evitare ulteriori forme di stigmatizzazione.
In conclusione…
Parlare di “dipendenza da cibo” è suggestivo e ha presa sul grande pubblico, ma non è utile in clinica.
- Le abbuffate e l’obesità hanno somiglianze superficiali con le dipendenze, ma differenze fondamentali nei meccanismi e nelle terapie.
- L’idea di food addiction rischia di aumentare stigma e fatalismo, facendo credere che non ci sia possibilità di guarigione e paragonando il cibo, essenziale per la sopravvivenza umana, con sostanze stupefacenti che essenziali non sono.
- Il tipico decorso temporale della ricaduta (che nei disturbi da uso di sostanze si riduce col tempo, mentre aumenta nel caso dell’obesità) ci porta a respingere con forza paragoni azzardati che porterebbero a scelte terapeutiche nocive (programmi dei 12 passi o diete rigide).
Se vogliamo davvero aiutare chi soffre di binge eating o lotta con il peso, la strada non è quella dell’“astinenza dal cibo”, ma quella della comprensione psicologica e sociale del comportamento alimentare e dell’uso di terapie efficaci.

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