Trauma, obesità e immagine corporea: quando il corpo non è più una casa

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“Il corpo accusa il colpo”, scrive Bessel van der Kolk.

Chi ha vissuto esperienze traumatiche lo sa bene: il corpo smette di essere un rifugio sicuro e diventa un luogo difficile da abitare. È come se il trauma lasciasse non solo ricordi dolorosi, ma anche una frattura nella percezione di sé: sentirsi “fuori posto” dentro il proprio corpo.

A causa del suo impatto dirompente e destabilizzante, il trauma modifica il nostro rapporto con le sensazioni corporee e lascia il sistema nervoso in uno stato di perenne allerta o congelamento.

Questa condizione ha conseguenze profonde sulla percezione dell’immagine corporea e sul rapporto con il cibo, specialmente nei disturbi alimentari e nell’obesità.

Il trauma, infatti, può alterare la nostra capacità di percepire i segnali interni (interocezione): fame, sazietà, stanchezza, desiderio.

Invece di sentirsi accolti nel corpo, si vivono ipervigilanza, distacco o dissociazione.

Il corpo diventa un promemoria costante di dolore, vergogna o vulnerabilità.

Questo si riflette inevitabilmente sull’immagine corporea: non più uno “specchio di sé”, ma qualcosa da combattere, controllare o nascondere.

I traumi che pesano sul corpo

La ricerca scientifica ha individuato diverse categorie di eventi traumatici che possono condizionare il rapporto con il corpo e col cibo:

  • Traumi infantili interpersonali: abusi fisici, sessuali, emotivi; trascuratezza; bullismo.
  • Traumi familiari: violenza domestica assistita, separazioni conflittuali, lutti precoci, abbandoni.
  • Traumi in età adulta: violenza da partner, aggressioni, discriminazioni persistenti (incluso stigma del peso).
  • Traumi medici: incidenti, malattie croniche, dolore persistente.
  • Traumi collettivi o ambientali: guerre, catastrofi, povertà estrema, migrazioni forzate.
  • Lutti complessi e perdite: di persone care, relazioni, lavoro o status sociale.

Questi eventi non causano automaticamente obesità o disturbi alimentari, ma possono predisporre a strategie di coping disfunzionali, come l’uso del cibo per regolare emozioni, calmare l’ansia o “anestetizzare” il dolore.

L’obesità come capro espiatorio

Spesso si pensa che l’obesità, di per sé, porti inevitabilmente a sentirsi estranei al proprio corpo. Ma non è così.

La difficoltà a percepirsi “a casa” nella propria pelle nasce, molto più spesso, a seguito dell’impronta lasciata dalle esperienze traumatiche: abusi, umiliazioni, lutti, trascuratezza emotiva, violenza domestica, discriminazioni, ecc.

Queste esperienze minano la fiducia nei segnali corporei, interrompono la capacità di ascoltare fame e sazietà, confondono emozioni e bisogni. La persona non riesce più a sentire il corpo come suo, ma lo percepisce come qualcosa di distante, a volte addirittura come un nemico.

Ma l’obesità non è la causa di questa distanza. È il modo in cui la viviamo, condizionati dal trauma e dallo stigma sociale, a trasformarla in sofferenza.

“Se perdessi peso, sarei finalmente me stessa”

Molte pazienti asseriscono:

«Se riuscissi a perdere peso, potrei finalmente vedermi per come sento di essere; perché così non mi sento me stessa».

Questa frase racchiude un nodo centrale: la sensazione che l’identità interiore non coincida con il corpo visibile. È come vivere in una casa che non riconosci come tua: i mobili sono diversi, le stanze troppo strette o troppo grandi, e non riesci mai a sentirti davvero a tuo agio.

Il desiderio di cambiamento corporeo nasce allora come ricerca di coerenza, come tentativo di riallineare il dentro e il fuori. Ma, se questo processo avviene forzando o negando i segnali del corpo, il rischio è che la distanza aumenti: invece di riavvicinarsi a sé stessi, ci si allontana ancora di più, inseguendo un’immagine ideale che continua a sfuggire.

In altre parole, il problema non è il corpo “troppo grande”, ma la ferita invisibile che rende difficile sentirlo come casa.

Il paradosso delle diete drastiche

La società propone il dimagrimento come unica via di riscatto e migliore strumento per colmare quella distanza percepita fra sé ideale e sé reale. Ma per dimagrire a tutti i costi, spesso si finisce per ignorare proprio quei segnali che andrebbero recuperati: la fame, la sazietà, il bisogno di riposo.

Così, la ricerca di cambiamento corporeo rischia di rafforzare la disconnessione dal corpo, invece che guarirla.

Non è l’obesità a separare il senso di sé dal corpo, ma il modo in cui, spinti dal trauma e dallo stigma, cerchiamo di aggiustarlo a forza.

Ricominciare dal corpo

Il vero lavoro, allora, non è quello di forgiare un corpo diverso, ma di ricostruire un legame con quello che c’è.

Si tratta di imparare a ri-ascoltare i segnali corporei, ad accoglierli senza giudizio, a restituire dignità al corpo come luogo di esperienza e di identità.

Il trauma può avere insegnato a diffidare del corpo. Ma il percorso di cura — psicologico, relazionale, personale — non può prescindere dall’obiettivo di tornare a sentire che questo corpo, con i suoi limiti e le sue risorse, può di nuovo essere una casa.

In definitiva: non è l’obesità a generare quella sensazione di estraneità che molte persone con obesità percepiscono, ma sono le esperienze traumatiche a interrompere il legame con il corpo.

Di conseguenza, la guarigione non consiste nel modellare un corpo nuovo, ma dal riconnettersi a quello che già abitiamo, imparando a sentirlo, rispettarlo e onorandone i bisogni.

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