
“Non ci guardiamo mai davvero con occhi neutrali: negli specchi della vita vediamo riflesso ciò che altri hanno visto in noi.”
Ci sono sguardi che scaldano e sguardi che feriscono. Sguardi che ci aprono al mondo e altri che, senza volerlo, ci chiudono in una gabbia invisibile.
Fin dai primi istanti di vita, lo sguardo dell’altro è il nostro primo specchio: è lì che scopriamo chi siamo, quanto valiamo, se meritiamo di essere amati.
E quegli sguardi, ripetuti negli anni, non restano fuori: li portiamo dentro come una seconda pelle. Diventano il filtro attraverso cui ci vediamo, non solo allo specchio, ma in ogni gesto, in ogni pensiero su di noi. È come se ci venisse consegnato, in eredità, un paio di occhiali attraverso i quali guardare per sempre la nostra immagine.
E non sempre sono occhiali gentili.
Lo sguardo che ci plasma
La psicologia dell’attaccamento, a partire dai lavori di John Bowlby (1969) e Mary Ainsworth (1978), ci racconta che il nostro senso di sé nasce nello scambio con chi si prende cura di noi. Un volto che sorride, che si illumina quando ci vede, ci fa sentire degni e al sicuro; uno sguardo freddo, distratto o critico lascia invece una traccia di incertezza e di vergogna.
Le neuroscienze (Schore, 2001) mostrano che queste interazioni non sono solo ricordi emotivi: modellano la struttura stessa del cervello, influenzando le aree che regolano le emozioni e il modo in cui ci percepiamo. In poche parole: lo sguardo dell’altro scrive dentro di noi il modo in cui impareremo a guardarci.
L’eredità diretta e indiretta
Questa eredità prende due strade.
C’è quella diretta: le parole che ci sono state dette, le etichette che ci hanno appiccicato addosso. “Sei bella”, “sei goffo”, “sei troppo grasso”. Anche dette con leggerezza, queste frasi scavano, ripetendosi fino a diventare verità interiori. Young et al. (2003) chiamano questi solchi schemi di auto-rappresentazione, matrici profonde che influenzano il nostro modo di vederci per tutta la vita.
E poi c’è l’eredità indiretta: quella che impariamo osservando. Come i nostri genitori parlano del loro corpo, come giudicano il corpo degli altri, come si trattano davanti allo specchio. Secondo la teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura (1977), questi modelli si imprimono in noi anche senza una parola rivolta direttamente. Se mamma si lamenta di ogni foto, se papà critica chi ingrassa, impariamo che il corpo è sempre sotto esame, e il nostro non farà eccezione. Studi come quello di Neumark-Sztainer et al. (2010) mostrano che questo tipo di “sguardo appreso” è fortemente legato a insoddisfazione corporea e disturbi alimentari.
Quando lo sguardo diventa nostro
Con il tempo, quello sguardo non è più solo esterno: diventa interno. Il sociologo Charles Horton Cooley (1902) parlava di looking-glass self: vediamo noi stessi attraverso gli occhi degli altri. Ma dopo anni, quegli occhi sono ormai i nostri.
La voce che un tempo veniva da fuori — “non sei abbastanza”, “devi essere diversa” — si trasforma in dialogo interno. Un monologo critico, a volte spietato, che giudica ogni aspetto di noi. Paul Gilbert (2005) ha dimostrato che questo self-talk punitivo è uno dei fattori più corrosivi per l’autostima e la percezione corporea.
E così, ogni volta che ci guardiamo allo specchio, non vediamo solo il nostro corpo: vediamo una somma di giudizi ereditati, di frasi sentite mille volte, di confronti imparati.
Il corpo come prigione dello sguardo
Il corpo diventa il teatro su cui questo sguardo recita la sua parte. Come spiegano Cash & Pruzinsky (2002), l’immagine corporea non è una fotografia oggettiva: è un racconto che facciamo a noi stessi. Se quel racconto è stato scritto con parole dure e sguardi svalutanti, anche il corpo più sano e funzionale potrà sembrare “sbagliato”.
Non si tratta solo di estetica: è questione di dignità. Uno sguardo giudicante ci priva della possibilità di osservare il nostro corpo con rispetto, di percepirlo come un luogo degno di cura. È un peso che ci piega, come un’eredità che nessuno vorrebbe ricevere.
Restituire lo sguardo, scegliere il proprio
Eppure, questo peso non è eterno. La ricerca sulla neuroplasticità (Siegel, 2012) ci dice che possiamo ristrutturare il nostro modo di percepirci. Non possiamo cambiare lo sguardo che abbiamo ricevuto, ma possiamo decidere se continuare a indossarlo.
L’auto-compassione (Neff, 2003) offre una strada: parlare a noi stessi come faremmo con una persona amata, sospendere il giudizio, riconoscere il nostro valore al di là dell’apparenza. La body neutrality ci aiuta a spostare l’attenzione da “come appaio” a “cosa posso fare con questo corpo”.
Restituire lo sguardo ereditato significa rifiutare di essere visti solo attraverso le lenti del passato. Significa scegliere occhiali nuovi — nostri — per guardarci.

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