La fame come voce muta della rabbia

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C’è un legame, molto noto a chi si abbuffa, tra rabbia e fame.

Un legame atavico, profondo e difficile da scardinare ma, talvolta, anche da comprendere.

Perché la fame che porta a mangiare, non è una fame comune: è una fame “eccezionale”, a cui non si può dire un no, alla quale non si possono porre limiti. Anzi, è proprio perché quella rabbia ha avuto troppi limiti, confini, impossibilità di esprimersi, che lo fa attraverso una fame così potente.

Lo sa bene Van der Kolk, esperto mondiale nel campo del trauma, che ha parlato di come spesso la rabbia sia una reazione funzionale primaria nei contesti traumatici.

Egli sottolinea come la rabbia sia una risposta naturale e fisiologica alla sensazione di pericolo, violazione o ingiustizia che si accompagna alle esperienze di impotenza, abuso, trascuratezza o sopraffazione.

“Quando si è traumatizzati, si perde il senso di controllo. La rabbia diventa uno dei pochi modi per riappropriarsi del proprio potere.” – Bessel van der Kolk, “Il corpo accusa il colpo”.

Nelle persone che hanno vissuto traumi relazionali precoci (come trascuratezza o abuso nell’infanzia) la rabbia spesso non ha potuto essere espressa in modo sicuro, per paura di ritorsioni, abbandono o giudizio.

Ma quella rabbia non sparisce semplicemente. Essa riemerge esplodendo all’improvviso in modo sproporzionato e disorganizzato (perché non è stata integrata nel sistema nervoso e nella coscienza) o riemerge sotto forma di comportamenti auto-distruttivi, fra cui i disturbi alimentari.

In parole semplici: la rabbia, nei traumi, è una reazione alla perdita di potere e sicurezza.

Non è il problema ma è il sintomo della ferita.

Specialmente nei disturbi alimentari connotati dalla presenza di abbuffate, come la bulimia e il binge eating disorder (BED), la rabbia può emergere sotto forma di attacchi al corpo. Il corpo viene colpevolizzato per ciò che è successo (“se fossi stata diversa, non mi sarebbe successo”) ed il cibo diventa lo strumento per mettere in atto una battaglia contro di esso. La rabbia trova così sfogo attraverso abbuffate, vomito, restrizioni, esercizio compulsivo e controllo estremo.

Mangiare, abbuffarsi o digiunare diventano i linguaggi simbolici attraverso cui si comunica un dolore antico, spesso inespresso a parole”-Van der Kolk, Herman, Bruch.

Se la rabbia originaria nasce da esperienza di impotenza e mancanza di protezione, controllare il cibo o il corpo può diventare un modo per riprendere un potere illusorio. Ma questo controllo è rigido, doloroso e spesso viene interrotto da quelle perdite di controllo (abbuffate, vomito, ecc.) che riattivano la vergogna e la rabbia, innescando un circolo vizioso senza fine.

Mangiare compulsivamente può essere un modo per anestetizzare l’attivazione fisiologica legata alla rabbia (tachicardia, tensione muscolare, sensazioni viscerali).

Il corpo diventa il luogo della battaglia non detta e i comportamenti disfunzionali sul corpo sono una forma di comunicazione implicita del trauma.

Judith Herman, nel suo libro “Trauma e guarigione”, aggiunge che:

Molte donne sopravvissute a traumi relazionali non esprimono mai la loro rabbia verbalmente. Ma il loro corpo parla. E spesso parla attraverso fame, peso, pelle o ferite autoinflitte”.

La rabbia inespressa, quindi, viene deviata verso il corpo. In quest’ottica, i disturbi alimentari e i comportamenti alimentari disfunzionali diventano strategie di sopravvivenza che danno un momentaneo senso di controllo o sollievo.

Integrare e dare voce alla rabbia originaria (non sfogarla, ma comprenderla) è una delle chiavi trasformative nel trattamento dei disturbi alimentari a base traumatica.

Secondo Van der Kolk, la riconnessione con la rabbia consente di legittimarla e trasformarla in energia vitale e capacità assertiva. La rabbia sana permette di dire “no”, di mettere limiti, di proteggersi ed è parte della ricostruzione dell’autonomia e dell’identità minati dal trauma.

Nonostante la funzione di sollievo svolta dai sintomi alimentari nel breve termine, infatti, essi richiedono un alto costo personale, non soltanto dovuto ai sintomi stessi ed alle loro conseguenze sulla salute psico-fisica, ma anche poiché essi silenziano una rabbia che rappresenta l’unica fonte di prevenzione della ritraumatizzazione. Quando un soggetto traumatizzato continua, attraverso l’alimentazione compulsiva, a non dare ascolto alla propria rabbia (che saggiamente gli segnala quando qualcuno o qualcosa vìola i suoi confini), di fatto si espone alla possibilità di continuare a essere sfruttato, usato, manipolato, riattivando il dolore di vecchie ferite.

Quel sintomo che apparentemente lo salva, quindi, diventa l’arma del suo potenziale nemico.

In un circolo che si ripete per anni, pur di tenere celato il dolore originario.

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