
C’è un momento, nel percorso di crescita personale e professionale, in cui le cose iniziano a prendere una forma più coerente. Quel momento è arrivato anche per Famelicamente.
Il restyling del sito non è solo estetico: è il riflesso di un’evoluzione più profonda, maturata negli ultimi mesi, grazie alla mia formazione in Psicotraumatologia.
Questo nuovo approccio nasce da una convinzione sempre più solida: non possiamo parlare seriamente di problematiche alimentari senza interrogarci sulla storia traumatica della persona.
Quando il cibo racconta qualcosa che le parole non riescono a dire
Per molte persone, la relazione con il cibo – che si tratti di controllo, eccesso, evitamento o oscillazione continua – non è semplicemente una “cattiva abitudine” o una questione di volontà. Come hanno sottolineato autori come Paul Vanderlinden, ma anche van der Kolk, Allen, Schore, Liotti, i comportamenti alimentari possono essere strategie adattive, sviluppate in risposta a esperienze traumatiche o a stili di attaccamento disorganizzati.
In altre parole: il sintomo non è il problema, ma spesso la soluzione migliore che la persona ha trovato per sopravvivere a qualcosa di più grande.
Il trauma non è (solo) ciò che è accaduto
Quando parliamo di trauma, non parliamo solo di eventi eclatanti (abusi, violenze, lutti improvvisi), ma anche di esperienze più sottili e continuative – trascuratezza emotiva, invisibilità affettiva, incoerenza dell’ambiente relazionale – che hanno segnato lo sviluppo della persona e il modo in cui ha imparato a percepire sé stessa, gli altri e il mondo.
Come scrive Vanderlinden:
“Per molte persone, la perdita di controllo sul cibo è una perdita di controllo sull’emotività profonda, su un dolore antico e ancora non elaborato.”
Perché proprio il cibo? Il linguaggio silenzioso del trauma
Molti si chiedono: perché alcune persone, in seguito a un trauma, sviluppano sintomi alimentari, mentre altre magari soffrono di ansia, depressione o dipendenze?
La risposta è molto personale, ma affonda le radici nel corpo, nell’attaccamento e nella biografia emotiva.
Il cibo è il primo mediatore affettivo della nostra esistenza: pensiamo alla nutrizione come primo scambio tra madre e bambino. Quando quell’esperienza è stata carente, confusa, imprevedibile o carica di tensione, il corpo può immagazzinare un messaggio implicito: “Per stare bene devo controllare, limitare o riempire.”
Inoltre, il cibo è sempre disponibile, regolabile, tangibile. Per chi ha vissuto esperienze traumatiche, può diventare un modo per anestetizzare emozioni insostenibili, colmare vuoti interiori, oppure riprendere un senso di controllo in un mondo che sembra incontrollabile.
Come spiega la letteratura di area neuroaffettiva (Schore, van der Kolk), il trauma rompe la capacità di regolare le emozioni attraverso canali relazionali. Il comportamento alimentare disfunzionale diventa allora un sostituto regolativo, spesso invisibile agli altri, ma profondamente significativo per la persona.
Non è una scelta. È una risposta adattiva, spesso non verbalizzata, che ha senso se riletta nel suo contesto.
Quando ha senso chiedersi se c’è un trauma alla base?
Potrebbe essere utile interrogarsi sul legame tra trauma e problematiche alimentari se:
- il rapporto con il cibo è stato disfunzionale “da sempre” e sembra impermeabile al cambiamento;
- ci sono vissuti ricorrenti di vergogna, senso di colpa, paura o vuoto, difficili da spiegare razionalmente;
- si fatica a fidarsi, a stabilire relazioni stabili o a “sentirsi al sicuro” anche nei momenti di calma;
- ci sono blocchi emotivi o reazioni sproporzionate rispetto agli stimoli;
- la relazione con il corpo è intrisa di dolore, rabbia o rifiuto.
Verso un approccio più integrato e compassionevole
Con questa nuova fase, Famelicamente vuole essere uno spazio più accogliente, profondo e integrato, capace di parlare non solo di cibo, ma di senso, di relazioni, di corpo e di memoria.
Non è più tempo di trattare i problemi alimentari come un comportamento da correggere. È tempo di guardarli con occhi nuovi, come porte d’accesso alla storia affettiva della persona.
Se senti che questo tipo di approccio risuona con la tua esperienza, sappi che non sei sola/o. C’è un modo diverso di affrontare tutto questo: più rispettoso, meno colpevolizzante, più trasformativo.
E da qui, comincia il nuovo cammino di Famelicamente.

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