Secondo un rapporto dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del 2014, il 92% della mortalità in Italia è da attribuirsi a malattie croniche.
Malattie dallo sviluppo incerto e imprevedibile, i cui sintomi possono comparire all’improvviso o rimanere silenti anche per molti anni, rendendo particolarmente difficili le terapie e ostacolando la motivazione a curarsi. Proprio nella parola cronicità, infatti, risiedono tutta una serie di significati e implicazioni che non sempre risultano chiare ai pazienti.
D’altra parte, nonostante l’OMS abbia da tempo definito l’obesità come una patologia cronica e multifattoriale complessa, sono stati in molti (professionisti e non) a promuovere una visione totalmente differente della stessa; una visione basata sulla completa remissione dei sintomi, in cui, grazie a miracolosi trattamenti, i chili di troppo spariscono una volta per tutte senza mai più fare ritorno nella vita dei soggetti.
Una simile concezione della malattia è stata foriera di spiegazioni ancora più malsane al fenomeno della recidiva che, ovviamente, è naturale attendersi quando ci si trova al cospetto di una patologia cronica. Per spiegare il recupero del peso, infatti, si è fatta leva sulla mancanza di volontà dei pazienti, dando a loro ogni colpa della gravità della propria condizione; in una logica che premia il professionista, quando le cose funzionano e biasima il paziente, quando la malattia fa la sua naturale ricomparsa.
“Sei dimagrito? è merito della terapia che ti ho prescritto! Hai fallito? non ti sei impegnato abbastanza!”, dicono gli esperti di turno.
Ma in verità, evidentemente, l’idea stessa di sperimentare un qualsiasi approccio di cura dell’obesità con l’obiettivo di eliminarla in modo definitivo, un po’ come faremmo con un raffreddore, è ciò che rende di per sé il tentativo fallimentare. Non è quindi nella mancanza di forza di volontà che risiede l’ostacolo a questa malattia bensì nella cronicità intrinseca alla stessa, che deve orientare le strategie terapeutiche verso obiettivi realmente sostenibili e concepiti per essere tollerati sul lungo periodo.
In altre parole, i trattamenti dovrebbero sempre essere orientati, quando non alla prevenzione, all’attenuazione dei sintomi o a rallentare lo sviluppo/il peggioramento della malattia, piuttosto che alla guarigione.
Il fatto stesso di educare il paziente a vedere la propria obesità come condizione acuta anziché cronica, è fonte di diversi problemi:
- le aspettative sono rivolte alla guarigione completa (che non è realizzabile);
- le recidive vengono interpretate come fallimento personale;
- terapie più sostenibili e rispettose della salute mentale, potrebbero essere scartate in quanto considerate “inutili” giacché non producono una guarigione definitiva;
- l’accettazione della malattia, che è fondamentale per aspirare a una buona qualità di vita, è fortemente ostacolata
Quando il paziente viene messo nella condizione di pensare che, col trattamento giusto, con la dieta giusta o con l’allenamento giusto, i suoi chili di troppo saranno eliminati per sempre, l’accettazione della malattia viene messa sullo sfondo in quanto, apparentemente, non si ravvede il bisogno di venire a patti con qualcosa che ha una durata limitata. Ecco perché, spesso, i pazienti sostengono di posticipare moltissimi dei loro obiettivi a quando saranno finalmente magri. Il solo fatto di mantenere attive certe aspettative nella propria mente, costituisce una mancata opportunità di reale cambiamento.
La vita si restringe al momento in cui la trasformazione sarà effettivamente compiuta e, nel frattempo, si vive una vita a metà, anche quando non vi sono ragioni obiettive per continuare a rimandare i propri programmi personali.
Quando, per molti anni, il paziente ha tentato di prendersi cura dell’obesità perseguendo il traguardo della guarigione definitiva, fidandosi di chi gli ha subdolamente venduto un simile proposito, la sua fiducia di poter stare meglio sarà ormai compromessa. La sua autostima sarà logorata da quelli che avrà etichettato come fallimenti dovuti alle sue mancanze e il percorso verso l’accettazione sarà ancor più tortuoso.
Inizialmente, in questi tipo di pazienti, si ravvisa una totale mancanza di apertura verso il concetto stesso di cronicità. La tentazione di ricorrere a qualche altro tentativo non ancora sperimentato di terapia definitiva è forte e, anche dopo diversi mesi di terapia psicologica, può rivitalizzarsi, se incalzato con formule di vendita particolarmente convincenti. Il fatto stesso che sul mercato siano proposte soluzioni sempre nuove e originali (come si evince, in questi ultimi tempi, dal caso “Ozempic”), stimola il paziente a conservare una speranza che, a ben vedere, è la sua stessa condanna.
D’altra parte, a peggiorare la situazione, è indubbiamente la presenza dello stigma che caratterizza in particolar modo l’obesità rispetto ad altre patologie croniche.
Rispetto ad altre malattie in cui è ampiamente riconosciuta la mancanza di responsabilità del paziente, infatti, nel caso dell’obesità, il fatto di attribuire le colpe del peso in eccesso al comportamento dei malati, fa sì che il desiderio di guarire si aggrappi a qualsiasi proposta minimamente plausibile.
I pazienti stessi diventano nemici del proprio benessere. Si attribuiscono ogni colpa e sono pronti a buttarsi a capo fitto in qualsiasi tentativo che sia in grado di rivitalizzare la loro speranza.
Per questo motivo, la terapia psicologica, che mira al benessere globale della persona con obesità, non può prescindere dal sostenere il paziente verso una sana accettazione della sua condizione. Obiettivo che non si realizza attraverso una resa incondizionata alla malattia e nemmeno mediante la creazione di false aspettative.
Ma che cosa si intende, allora, per accettazione?
Secondo Hayes e Wilson (1994) l’accettazione è “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici“. Il che, come sostengono gli autori, non equivale ad arrendersi, ma a reindirizzare le energie ai propri valori personali, che vanno oltre la semplice gestione della malattia.
In altre parole, l’accettazione della malattia implica un “ri-orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita” (McCracken & Eccleston, 2003) e una delle sue componenti consiste nella volontà di affrontare vissuti difficili come paura, imbarazzo, dolore e fatica, quando ciò consente di prendere parte ad attività gratificanti (Ibidem).
Tutti obiettivi che troppo spesso sono sottovalutati da altre forme di terapia.
Un altro ostacolo importante nel trattamento dell’obesità, a tal proposito, è proprio la focalizzazione sulla mera componente “fisica” della malattia. Come terapeuta, ho perso il conto di tutte quelle volte che un paziente mi ha detto frasi come: “il mio nutrizionista mi ha consigliato di rivolgermi a uno psicologo perché non riesco a calare di peso col suo programma; quindi la causa deve essere senz’altro mentale”.
In pratica la componente psicologica sembra subentrare solo nel momento in cui il lavoro sulla parte fisica non funziona. Come se si trattasse di due entità separate. Oltretutto, rinforzando l’idea che la fallibilità di un programma alimentare sia dovuta a qualche aspetto deficitario nella mente del paziente e non al metodo stesso. Logica che, evidentemente, sarebbe rigettata istantaneamente se stessimo parlando della cura di una qualsiasi altra patologia cronica. Nessun medico, infatti, si sognerebbe di dire a un paziente: “la chemioterapia non ha funzionato perché nella sua testa c’è qualcosa che non va; le consiglio di andare da uno psicologo”.
Una psicologia menzionata solo quando fa comodo, dunque, ma mai (o quasi) tirata in ballo nel momento opportuno: quello indispensabile all’accettazione della malattia e di una sua sostenibile gestione.
Nessuna disciplina, al di fuori della psicologia, tiene infatti in debita considerazione la necessità del paziente di costruire una nuova narrazione di sé, con la malattia. La necessità di rimettere insieme i pezzi di un’identità aggredita e compromessa; la necessità di esercitare un controllo su una vita che si apre al pensiero della precarietà e della perdita di speranza.
Eppure, focalizzarsi sul vero obiettivo, vivere bene con la malattia, non è un traguardo di poca importanza bensì l’unico vero e sano scopo da raggiungere. L’unico che prende in considerazione l’individuo come totalità di corpo e mente, senza trascurare nulla.


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