Vergogna: l’emozione che mantiene le gerarchie sociali

By

L’esperienza della vergogna è così presente nella vita delle persone con obesità da sembrare quasi scontata, ovvia. Così ovvia che nessuno ne parla mai in modo approfondito, lasciando intendere che vergognarsi sia un’azione dovuta, un prezzo naturale da pagare in conseguenza del possesso di una determinata condizione fisica.

Quando si parla del legame fra obesità e vergogna il termine che aleggia nell’aria è quello della responsabilità. Se, infatti, la vergogna viene definita come un’emozione autocosciente secondaria (Tangney et al., 2007), ossia un’emozione che ha a che fare con la consapevolezza di possedere un attributo negativo, difettoso, vergognarsi in quanto persone obese sottende che vi sia una responsabilità nel rimanere in tale condizione giacché (secondo il pensiero comune) sarebbe sufficiente impegnarsi di più per poter rimuovere il difetto incarnato.

Insomma la vergogna, come già è possibile intravedere da questa prima disamina, appare saldamente legata alle norme sociali e a ciò che si ritiene “giusto” in un determinato gruppo di individui.

In quanto emozione morale, la vergogna implica preoccupazioni fisiche e incoraggia l’evitamento sociale ma, per capirne meglio il significato, è indispensabile considerarne i significati evolutivi.

Secondo i ricercatori, un po’ com’è accaduto per le piume degli uccelli, un tempo necessarie alla regolazione della temperatura e solo dopo risultate utili al volo, anche per la vergogna, lo scopo adattivo è andato mutando nel tempo. Nata come emozione necessaria all’evitamento delle malattie (a partire dal disgusto), essa si è poi rivelata fondamentale per mantenere inalterate le gerarchie sociali.

Secondo questa prospettiva, la vergogna non sarebbe altro che un’emozione di disgusto rivolta verso sé stessi con lo scopo di regolare una trasgressione sociale in quanto il sé viene percepito come fonte di contaminazione.

Questa ipotesi sarebbe in linea con la teoria evoluzionistica dell’evitamento dell’agente patogeno la quale evidenzia tutta quella serie di comportamenti che ci tengono lontani da parassiti e agenti patogeni, suscitando in noi sensazioni di disgusto.

Secondo tale teoria, in altre parole, poiché l’obesità è un attributo fisico osservabile, ben visibile agli altri, può essere inconsapevolmente percepita come marker di una malattia, attivando di conseguenza un “sistema di rilevamento dei patogeni” che porta a evitare fisicamente le persone con obesità come forma di prevenzione delle “infezioni” (Di Pauli, 2021).

In realtà, quindi, un’emozione così tanto avvertita a livello individuale come la vergogna, ha ragioni molto più sociali di quanto si possa pensare.

La vergogna facilità la conformità, l’essere visti ma non ascoltati. Questo vale tanto per il possedere un corpo considerato non-conforme (come quello obeso), quanto per altre caratteristiche fisiche, sociali, morali (per es. appartenere a una minoranza etnica o aver commesso un reato o appartenere a un ceto di livello basso).

Non c’è modo più veloce ed efficace di ottenere obbedienza da un individuo che non sia quello di fargli provare vergogna. Che si tratti di un bambino o di un adulto, la vergogna è un ottimo strumento di controllo che agisce facendo desiderare al soggetto stesso di uniformarsi e quindi di adeguare il proprio comportamento a una norma stabilita da una maggioranza a cui egli vuole disperatamente appartenere.

Il messaggio di fondo è che “non sei abbastanza”: una forma di attacco al sé che interferisce con la possibilità di provare sentimenti positivi e alimenta la credenza del soggetto di non avere valore. Quando al disprezzo da parte della società si aggiunge quello dei genitori o di altre importanti figure di riferimento, poi, l’esperienza diventa pervasiva (“non sono abbastanza nemmeno per mia madre”) e la vergogna può estendersi anche alle generazioni successive come metodo per evitare l’esperienza della vergogna nei figli (suscito vergogna nei figli per evitare che emettano comportamenti vergognosi agli occhi della società). In questo modo la vergogna assicura la stabilità delle gerarchie sociali. Ognuno continua, per così dire, a stare al proprio posto. La violazione delle norme fisiche, morali o sociali è scoraggiata.

Quando si attacca al sé corporeo, la vergogna gioca un ruolo chiave nei disturbi che coinvolgono l’immagine corporea, come il disturbo da dismorfismo corporeo (Parker, 2003) e l’insorgenza e il mantenimento dei disturbi alimentari (Goss e Allan, 2009).

Al di là di ciò che spesso viene creduto dal comune sentire, le persone che provano vergogna faticano a prendersi cura di sé stesse e far rispettare i propri limiti. Per questo tale emozione è stata definita “disadattiva” in quanto incoraggia comportamenti disfunzionali, in particolare l’evitamento comportamentale (Tangney, 1991). Non è quindi vero che indurre vergogna nei soggetti con obesità rappresenta un modo per stimolarli a prendersi cura di sé. Anzi…semmai tutto il contrario.

Anche da questo punto di vista, le ricerche concordano sul sostenere che la vergogna e il senso di inferiorità possono predisporre le persone a una scarsa autoregolamentazione del comportamento alimentare soprattutto in un ambiente obesogeno e stigmatizzante come quello in cui viviamo.

L’autovalutazione negativa (vergogna, autocritica, odio verso se stessi e scarsa auto-rassicurazione), nello specifico, può essere associata a sentimenti negativi riguardo al proprio peso corporeo e queste emozioni possono tradursi in comportamenti alimentari più disinibiti e in un’elevata predisposizione all’alimentazione.

Emerge così un circolo vizioso in cui la vergogna alimenta l’incapacità di prendersi cura di sé, una percezione ancor più negativa del proprio sé corporeo e un sempre crescente sentimento negativo verso sé stessi il quale porta altra vergogna, mantenendo la situazione in stallo.

Anche per quanto concerne il linguaggio del corpo, la vergogna non fa altro che allontanare chi la prova da possibili interazione positive con gli altri: Wallbott (1998) ha scoperto che sia la vergogna che il disgusto comportano un collasso della parte superiore del corpo e un movimento verso il basso della testa, rendendo otticamente il corpo un bersaglio più piccolo, allo scopo di evitare danni. Tale cambiamento posturale, riferito a chi cerca di sottrarre il proprio fisico ai giudizi degli altri, appare come un tentativo di ridurre lo stigma ma è anche, purtroppo, un linguaggio corporeo che trasmette insicurezza e comunica la volontà di mantenere un distacco dagli altri.

Nel loro insieme, tali evidenze scientifiche, hanno portato gli studiosi a interrogarsi sulla possibilità di ridurre il disgusto come uno degli obiettivi della psicoterapia. Un eventuale lavoro sull’emozione che scatena la vergogna, infatti, potrebbe rivelarsi cruciale nel trattamento dei disturbi psicologici in cui la vergogna stessa è implicata: disturbo da dismorfismo corporeo e disturbi alimentari in primis ma anche come coadiuvante nella terapia psicologica per l’obesità in cui l’influenza dello stigma agisce peggiorando lo stile alimentare, avendo la vergogna come mediatore.

Lascia un commento