Comunicare l’obesità: lo stiamo facendo bene?

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Scrive l’antropologo e medico americano Byron Good: “la sofferenza di un paziente è più estesa del suo sintomo e lo stato di malattia è più ampio di un dolore localizzato”.

La malattia è un’esperienza umana carica di significato.

Non c’é “il diabete”…ma c’é il “diabete di Paolo”, “il diabete di Lucia”, ecc.

La cultura medica attuale, ancora oggi, non tiene sufficientemente in conto delle differenze individuali, i racconti personali, i background culturali dei malati che si promette di aiutare.

Per quanto concerne l’obesità, inoltre, esiste ancora un grande fraintendimento della terminologia “malattia cronica”, tale per cui, sebbene si cerchi di istruire i pazienti su cosa comporti l’essere affetti da una patologia cronica, le prescrizioni terapeutiche stesse non appaiono sempre in linea con questo presupposto.

Per questo oggi mi preme parlare ai miei lettori della differenza fra malattia acuta e cronica: lo spostamento di focus è necessario per poter iniziare a prendersi cura di sé in un’ottica duratura; ottica che, di per sé, renderebbe evidente l’inutilità di certe pratiche alimentari o del tentativo di implementare “a tutti i costi” abitudini controproducenti sul lungo periodo.

Quando si è in presenza di una malattia acuta, per definizione, i sintomi hanno una durata limitata nel tempo e cessano con la guarigione della causa che li ha provocati. In questi casi, normalmente, il paziente si affida al medico al fine di sottoporsi alle cure necessarie a far cessare lo stato di malattia.

Diverso è invece il caso della malattia cronica in cui:

  • spesso non vi sono sintomi osservabili/percepibili dal paziente;
  • la diagnosi può richiedere tempo;
  • gli obiettivi non sono sempre comprensibili (possono variare, possono non essere definibili tramite precisi parametri misurabili, ecc);
  • è necessario un approccio multidisciplinare (perché entrano in gioco diversi specialisti a seconda del tipo di quadro manifestato);
  • è richiesta una certa quota di ACCETTAZIONE da parte del paziente (in quanto la malattia non è debellabile una volta per sempre);
  • viene richiesto molto tempo per curarsi (sia per quanto riguarda i controlli che per quanto concerne i trattamenti, per esempio, quotidiani che il paziente deve inserire nella propria routine);
  • viene richiesta la partecipazione attiva del paziente;
  • il risultato non è mai la guarigione!

In questo caso, qual è il caso dell’obesità che rappresenta il nostro ambito di interesse, l’obiettivo è un NUOVO EQUILIBRIO giacché i sintomi durano ben oltre le loro cause o, addirittura, non hanno cause ben definite e determinabili.

Tutto ciò ha un’importante conseguenza per il paziente: il suo dolore NON HA SENSO.

Ciò rende difficoltosa la possibilità di creare un racconto di sé con la malattia e, di conseguenza, rende difficoltoso sopportare i vissuti ad essa collegati, rende difficoltosa l’accettazione e ostacola la messa in atto di comportamenti il linea con la convivenza cronica con la patologia.

Per questo, la maggior parte dei pazienti con obesità, non si prende cura della propria condizione bensì ci lotta. Ci entra in conflitto come se dovesse affrontare un nemico che, però, già si sa, non sarà mai del tutto eliminabile. Oppure, in casi più estremi, arriva a negare la malattia seguendo strade drastiche o drammatiche in cui: o evita del tutto di occuparsi della propria salute, o ricerca e si affida a metodi rischiosi che reputa risolutivi, ma che in realtà possono mettere a rischio la propria vita.

Basta parlare anche pochi minuti con una persona con obesità per capire quanta speranza venga riposta in ogni tentativo di dimagrimento, nei trattamenti di ultima generazione o in qualsiasi novità proposta nell’ambito della “cura”. Con questo non voglio dire che sia negativo agire con entusiasmo nel ricercare il proprio benessere ma mi riferisco piuttosto alla confusione fra il ricercare metodi sempre nuovi e aggiornati per farsi del bene e credere, invece, nella risoluzione di una patologia che, per costituzione, non è guaribile.

La stretta che mantiene legati i pazienti a questa credenza di guarigione definitiva è talvolta così potente da ostacolare qualsiasi possibilità di accettazione. I soggetti presi in questa morsa, respingono ogni evidenza che va contro le proprie convinzioni e sono più suscettibili a cadere nelle trappole che il business delle diete e del peso mette loro dinnanzi. Essi tengono a mente solamente casi di persone “miracolosamente dimagrite” senza conoscere i come e i perché di questi esempi e senza poter sapere quale sarà l’andamento futuro o i parametri di salute reali di chi prendono come riferimento.

Si badi bene: tutto questo non è colpa dei pazienti.

Se nel futuro non saranno fatti cambiamenti nel modo di comunicare la malattia cronica in generale e l’obesità in particolare, non ci sarà da meravigliarsi se questo approccio alla cura rimarrà diffuso. Ma questo cambiamento sarà possibile solo se avverrà a partire dai medici stessi e dai professionisti di ogni settore.

Finchè il paziente sarà relegato ad assumere un ruolo passivo, la medicina rimarrà spersonalizzata e i drop-out (abbandono della terapia) rimarranno sempre troppo alti.

La stessa attribuzione di colpa rimandata al paziente nel momento in cui esso non riesce a mettere in atto una prescrizione terapeutica ci da la misura di quanto manchi un’adeguata alleanza fra medico e paziente.

Anche la percentuale di adesione terapeutica da parte della popolazione, che nel caso delle malattie croniche si attesta a un 67% (rimasta la medesima dagli ani ’70), ci fa capire quanto sia fondamentale cambiare il passo.

Perché scrivo tutto ciò?

Perché, come pazienti, ci tengo a informarvi del fatto che é un vostro diritto ricoprire un ruolo attivo nella cura della vostra obesità (per esempio compilando assieme al personale sanitario la vostra cartella clinica o discutendo assieme al medico sulle possibilità terapeutiche che reputate di poter mettere realmente in atto);

Perché voglio che sappiate cosa significa veramente dover convivere con una malattia cronica in modo che possiate occuparvene al meglio (sapere che la malattia è cronica e recidivante, per esempio, vi permette di discriminare tra abitudini e trattamenti sostenibili nel tempo e di stare alla larga da false promesse che, una volta rivelatisi fallimentari, tendono a spegnere la motivazione alla cura).

Inoltre ve lo dico perché se riconoscete di avere una forte resistenza ad accettare l’inevitabile inguaribilità della malattia, per il vostro bene, dovreste prendere in considerazione l’opportunità di parlarne con qualcuno che possa aiutarvi a superare questo scoglio.

La malattia rappresenta una rottura biografica nella vita di una persona.

Essa mette in discussione il senso dell’esistenza; impone all’individuo un processo di frammentazione e ricomposizione di ritmi e priorità.

Il paziente deve dare un senso alla sua condizione anche laddove questo risulti faticoso e difficile a un primo sguardo. Questo è il solo modo per inscrivere la malattia in una storia più ampia e dargli un lieto proseguo.

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